Data: 31/12/2003 - Anno: 9 - Numero: 4 - Pagina: 4 - INDIETRO - INDICE - AVANTI
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AUTORE: Vincenzo Squillacioti (Altri articoli dell'autore)
Toccò a Micu ’e Spiccia andare a Reggio con il suo mulo per ritirare il grande vetro commissionato dalla Confraternita per la porta dell’armadio ligneo entro cui era custodita Santa Caterina. Micu non solo era tra i più disponibili dei confratelli, ma per essere ancora giovane poteva affrontare senza eccessiva difficoltà l’estenuante e pericoloso viaggio sino a Reggio Calabria, per una strada che, secondo quanto soleva dire il Parroco, già esisteva prima della nascita di Gesù Cristo, attraversando fiumare insidiose durante la piena e affrontando rocce e scoscendimenti in più parti, particolarmente nella zona di Capo dell’Armi. E poi era tra pochi in paese a possedere un mulo, unico mezzo possibile per il carico da trasportare. Furono cinque giorni di lungo cammino sino alla città dello Stretto, non ancora martoriata e mutilata dal terremoto che l’avrebbe distrutta dopo alcuni decenni, nel 1908. Cinque giorni di marcia forzata, ma sotto uno splendido sole settembrino che non faceva ancora pensare alle abbondanti piogge autunnali. Di notte gli era sufficiente riparo il folto fogliame di un ulivo, se non incontrava sul cammino una masseria o una stalla o un ulivo. Di giorno gli facevano compagnia i millenari ulivi di Calabria; e gl’interminabili vigneti di uva greca lungo il litorale; e gli estesi agrumeti della provincia di Reggio; e nella zona di Bova ebbe il primo incontrò con le piante di bergamotto dai cui frutti anche in Badolato venivano fatte le tabacchiere. Durante il viaggio di ritorno il cielo si coprì di nuvole, per cui Micu, nella speranza di evitare le probabili piogge che lo avrebbero messo in seria difficoltà, fece affrettare il passo al suo mulo, ma lo scomodo carico rallentava comunque l’andatura. All’imbrunire del quarto giorno dalla partenza da Reggio toccava la sponda del torrente Assi, ma la pioggia, che già cominciava a scendere, e la presenza di un vecchio casolare abbandonato lo consigliarono ad anticipare la sosta per trascorrere la notte al riparo. La pioggia scendeva ormai a catenelle, ma Micu era tranquillo perché coperto da un tetto in buona parte ancora funzionale. Seduto in un angolo consumò del pane con formaggio e bevve anche del vino, di cui aveva fatto rifornimento prima della partenza. Poi si sdraiò e si dispose al sonno in attesa della nuova giornata per riprendere il viaggio ormai vicino alla fine. Recitò la preghiera di Giosafat, pensò a sua moglie e ai suoi figli che l’aspettavano, immaginò la gioia e i complimenti del Procuratore della Confraternita, e s’addormentò, sognando briganti a cavallo. Ma non dormì a lungo, ché lo svegliò un colpo di fucile nei pressi del casolare, seguito da una sfilza di imprecazioni e di bestemmie intercalate da gemiti che sembrava stentassero ad uscire dalla bocca ovviamente maschile che ne era l’origine. La prudenza suggeriva di rimanere in silenzio e riprendere possibilmente a dormire, ma Micu, coraggioso e buono, non se la sentì di ignorare vigliaccamente il pianto di un uomo. Raggiunse a tentoni la porta e gridò nel buio per farsi sentire. Alla pronta risposta di una voce sofferente, si avviò come poté in quella direzione. Ci vollero interminabili secondi per abituarsi all’oscurità della notte, ma intravide alla fine una sagoma umana distesa per terra, e fu pronto il soccorso. Trasportò quasi di peso quell’anonimo corpo ferito dentro il casolare, mentre la pioggia già gli penetrava nelle ossa. Lariùni Spaccatèsti -così aveva detto di chiamarsi il malcapitato mentre deponeva per terra il suo fucile- perdeva sangue dalla parte alta di una coscia e si sarebbe certamente dissanguato se Micu ’e Spiccia non gli avesse bloccato come poté l’emorragia. Gli tolse di dosso i fracidi vestiti e lo asciugò con della paglia sparsa abbondantemente per terra. Poi pensò a sé, ma aveva preso troppa acqua, e già avvertiva brividi di freddo. Sdraiatosi per prendere sonno, più che dormire delirò, mentre Lariùni, russando, dormiva, forse per merito dell’abbondante vino offertogli dal salvatore forestiero. All’alba il cielo era nuovamente sereno, ma Micu era febbricitante; ciononostante riprese determinato il viaggio verso casa, dove arrivò a tarda sera. Con l’aiuto dei suoi depose dal mulo il prezioso carico e fece condurre nella stalla il povero animale che aveva percorso con pazienza ben trecento chilometri di fatuicosa strada in poco più di una settimana. L’indomani Micu ’e Spiccia non si alzò dal letto: il medico gli aveva diagnosticato una brutta broncopolmonite, che in pochi giorni lo mandò a trovare Santa Caterina per prendersi il meritato premio per il lungo viaggio fatto per lei alla fine della sua non lunga vita. Prima di morire chiamò al capezzale Pasquale, il figlio maggiore già giovanotto, al quale raccontò del drammatico incontro con Lariùni Spaccatèsti sulla sponda destra dell’Assi. Gli confidò -soltanto a lui, in segreto- che il brigante ferito, intendendo disobbligarsi per avere avuto salva la vita, prima di separarsi gli parlò di un tesoro nascosto nelle colline di Badolato, in una località tra la marina e il paese nei pressi della vecchia strada che portava a Catanzaro. Gli promise che sarebbe venuto, un giorno, “alla scordata”, avrebbe ritirato il suo tesoro e lo avrebbe ricompensato a dovere per la carità ed il coraggio dimostrati quella notte. Conclusisi i funerali di Micu, che ebbe l’onore della banda e la presenza di quattro sacerdoti celebranti sull’altare, Pascàla ’e Spiccia non rimase in casa con la madre i fratelli e i parenti, come era d’obbligo, ma bardò il mulo e tirò diritto verso Cuzzùhr¡!a, il loro più ragguardevole podere, confinante con la vecchia strada per Catanzaro. Legata la bestia alla vecchia quercia, si mise sulla spalla la scure e se ne andò in giro per la zona alla ricerca di ogni angolo che sia pur lontanamente fosse indizio di… tesoro nascosto. Così quel giorno, e l’indomani, e i giorni successivi, per mesi. Arrivò l’ora del matrimonio anche per Pasquale, che lasciò la casa paterna e abbandonò alcune abitudini, ma continuò a fare il contadino, coltivando, in particolare, proprio il podere di Cuzzùhr!a, toccatogli in eredità alla spartizione della roba quando prematuramente se ne andò anche la madre. In compagnia di un poderoso asino, acquistato alla fiera di luglio di Soverato alla morte del mulo di famiglia, Pasquale ogni mattina di buon’ora lasciava la casa e per la solita strada raggiungeva Cuzzùhr!a, non senza inciampare -non proprio ogni giorno, ma spesso- in una sporgenza di una lastra di granito situata sotto un carrubo, proprio all’incrocio della strada con il viottolo che immetteva alla sua proprietà. Alla sofferenza per le unghie dei piedi che spesso saltavano via inciampando, si aggiungeva in Pasquale il cruccio di non riuscire ad evitare un incidente così stupido. E ogni volta si riprometteva di portare l’indomani il piccone per tentare di rimuovere una volta per tutte quella grossa pietra, causa del continuo dolore. All’ennesimo inciampo preparò a sera un grosso piccone e lo pose all’ingresso della stalla per essere certo che l’indomani non l’avrebbe dimenticato. E il giorno appresso il non lungo viaggio lo dedicò a pregustare la soddisfazione per la rimozione del sasso maledetto. Albeggiava quando Pasquale fu nei pressi del carrubo. Fermò l’asino, ne prese il piccone e girò lo sguardo verso la grossa pietra, che era… rimossa, appoggiata quasi verticalmente al sentiero. Al suo posto una buca, e numerosi cocci di una pignatta rotta di recente: la prova di un tesoro portato via di recente. Quella notte.
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C’è ancora chi racconta di aver sentito dire che per mesi Pascàla ’e Spiccia fu visto girovagare per valli e burroni e incroci di strade, piccone in spalla, alla ricerca di una pietra sospetta. Nella speranza di rifarsi un giorno del tesoro perduto. Poi sparì. Si dice che, abbandonata la famiglia, se n’è andato in America, da dove non ha fatto ritorno. Anche noi siamo andati a Cuzzùhr!a, e abbiamo cercato tutt’intorno alla diruta casa rurale che fu di Pascàla ’e Spiccia: del grosso sasso, con la cattiva sporgenza, neanche l’ombra. |